Perché il conflitto israelo-palestinese è così polarizzante?
Proprio ora che se ne è tornato a parlare per via degli scontri a Gaza.
Circa un mese fa abbiamo assistito ad una feroce escalation di violenze sulla striscia di Gaza fortunatamente giunta, nel momento in cui si scrive, ad un precario e necessario cessate il fuoco. Nella speranza, purtroppo debole, che si possa giungere ad una risoluzione pacifica del conflitto in tempi relativamente brevi, questa vicenda mi ha ricordato una cosa: il conflitto israelo-palestinese è probabilmente il tema maggiormente polarizzante della politica contemporanea.
Parto da un’esperienza personale. Più volte vi ho raccontato che sto attualmente frequentando un Master in Middle Eastern Studies, un percorso di studi che mi ha fornito molti strumenti per comprendere il Medio Oriente contemporaneo (oltre che di conoscere molte persone veramente simpatiche). Durante i giorni in cui il conflitto è scoppiato ho avuto modo di discutere a lungo con un’amica, nonché compagna di corso, sui fatti che stavano accadendo sulla Striscia di Gaza. Ed effettivamente mi sono reso conto che le modalità e i toni del dibattito hanno preso ad un certo punto una direzione molto accesa che mai sarebbe stata concepibile parlando di qualsiasi altro argomento. A colpirmi, al di là del merito delle osservazioni scambiate, è stata l’intensità emotiva espressa non tanto da me, quanto dalla mia compagna (a cui va dato atto di nutrire una passione veramente viscerale per questo argomento).
Da lì nasce questa riflessione volta a cercare di capire perché le persone coinvolte in dibattiti riguardanti il Conflitto mettano in gioco una parte molto intima della propria personalità, quasi come vi fosse una sorta di sovrapposizione tra la propria vita privata e la guerra tra israeliani e palestinesi. In parole più semplici: si tende solitamente a difendere una delle due parti con le stesse modalità con cui si difenderebbe un proprio parente o amico.
Ho valutato anche l’ipotesi che sia io a circondarmi di “persone sbagliate” - dove per sbagliate intendo persone con interessi affini ai miei - ma sinceramente credo che la mia impressione sia in realtà ben fondata. Infondo basta passare più di dieci minuti su qualsiasi social network per rendersi conto che il Conflitto genere dibattiti di gran lunga più accesi di quello che ho avuto con la mia compagna di corso, talvolta con l’uso di frasi razziste (inaccettabili verso entrambe le parti coinvolte) o insulti personali.
Tutto questo negli scorsi giorni mi ha spinto verso la domanda che sta alla base di questo “articolo” e a cui cercherò di dare una risposta molto probabilmente frammentaria e limitata: perché il conflitto israelo-palestinese è così polarizzante?
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Questo, più che essere un articolo esaustivo, penso possa essere definito come una raccolta di riflessioni personali, nate un pò per caso a seguito di continui confronti con qualche amico o leggendo diverse esperienze dirette su articoli di varia natura. Per questo motivo non seguirò una vera e propria struttura come ho sempre fatto con gli altri articoli della newsletter.
Ritengo che prima di domandarsi perché il conflitto israelo-palestinese sia così polarizzante, sarebbe opportuno chiedersi perché molto spesso manchi quella “zona grigia” di opinioni che non si schierano né apertamente a favore di Israele e né a favore della Palestina. Ovvero tutte quelle che in altri termini chiameremo “opinioni ragionate”. Mi piace ricordare in tal senso, uno dei massimi intellettuali marxisti dello scorso secolo, Eric Hobsbawm, che in una delle ultime interviste rilasciate prima della sua morte ha dichiarato, riguardo al ruolo degli Stati Uniti nella storia globale:
[…] gli Stati Uniti […] per certi aspetti, sono stati il meglio del Novecento, la storia di maggior successo del secolo, ciò che resta e dura oltre la sua fine.
(Intervista sul nuovo secolo - Eric Hobsbawm (Edizioni Laterza)
Ad essere sincero, faccio molta fatica a trovare posizioni altrettanto equilibrate e prive di pregiudizi, da un lato e dall’altro, quando si parla del conflitto israelo-palestinese. Vi faccio un esempio. Recentemente ho acquistato un libro edito da Einaudi di Ian Black, giornalista del Guardian, dal titolo “Nemici e Vicini”, un libro che nella prefazione si proponeva di raccontare in maniera dichiaratamente imparziale le vicende che hanno coinvolto Israele e la Palestina a partire dall’inizio dello scorso secolo. La realtà, però, è che non ho trovato niente di tutto ciò, se non una mera descrizione volutamente selettiva di una serie di eventi a cui viene data maggiore o minore enfasi a seconda del caso. Nel complesso, quindi, una delusione. E questo è il caso di un libro apparentemente autorevole pubblicato in Italia dalla casa editrice più nota e blasonata a livello internazionale. Lungi da me il voler basare la mia argomentazione su un singolo caso, posso affermare con abbastanza certezza che ho riscontrato questa tendenza in molte altre fonti di informazione, siano esse cartacee o virtuali.
Inoltre, il Conflitto si trova oggi al centro di una serie di manipolazioni bipartisan, che avrebbero fatto impallidire il capo del dipartimento della propaganda dell’Unione Sovietica. Ad ogni accenno di crisi i social sono letteralmente invasi da video perlopiù amatoriali riportanti presunte scene di violenza. Video, questi, che molto spesso riprendono spesso solo pochi attimi di un evento più ampio e che sono quindi totalmente decontestualizzati. Improvvisamente il video di un piazza ebraica dove i cittadini dovrebbero sadicamente festeggiare la morte dei Palestinesi si scopre invece essere riferito ai festeggiamenti della Pentecoste. E questo è solo uno dei mille casi che potrei citare.
Ma assistiamo ad un fenomeno ancora più subdolo quando l’oggetto riprovevole di questi articoli non è un’azione, bensì un’argomentazione: in rete si trovano migliaia di video con traduzioni volutamente alterate di discorsi pronunciati in arabo o in ebraico per far apparire i loro autori come dei nazionalisti assassini [*] Riguardo a questo fenomeno il New York Times ha pubblicato un articolo molto interessante il 21 Maggio di quest’anno il cui titolo è inequivocabile: “Come le bugie sui Social Media hanno infiammato il Conflitto israelo-palestinese”. [**] Ci troviamo quindi a gestire una situazione paradossale in cui nella età dell’informazione (potenzialmente) illimitata non si è più in grado di discernere il vero dal falso, la realtà dalla manomissione. Anche in questo caso, però, non siamo difronte all’origine del problema quanto, piuttosto, ad uno degli elementi che contribuiscono ulteriormente alla sua polarizzazione.
Non credo, se devo essere sincero, che esista in tal senso una causa primigenia ed onnicomprensiva alla base della situazione assurda in cui il dibattito sul conflitto israelo-palestinese è rimasto impantanato da decenni. Credo piuttosto che la questione si trovi in questa posizione a causa di una serie di fattori minori che in qualche modo si influenzano a vicenda. In primo luogo, penso che a livello “mainstream” il Conflitto sia percepito solamente come uno scontro tra uno Stato ed un “quasi-Stato”. La situazione è ovviamente molto più complessa, a causa soprattutto dell’intervento di potenze esterne, della frammentazione politica interna palestinese -divisa tra il terrorismo di Hamas e la debolezza della legittima posizione dell’Autorità Palestinese e, infine, della complessità della stessa società ebraica che è tutto fuorché compatta su temi come gli insediamenti e i rapporti bilaterali con la Palestina. La banalizzazione del conflitto a due attori in contrasto fra loro rende l’analisi molto facile, seppur profondamente errata.
In secondo luogo, lo stato continuo di conflitto che vige tre le due comunità da più di un secolo non rende più semplice la lettura di questi eventi, poiché si viene spesso a creare una sorta di “disfunzione cumulativa” in cui il dibattito per trovare una soluzione al conflitto si riduce ad una macabra lista di violenze commesse da entrambe le parti. Ed è proprio questo il momento in cui la riflessione sulle ragioni profonde del conflitto lascia spazio all’emotività, intesa solamente come cieca intensità irrazionale.
In terzo luogo, penso che il conflitto israelo-palestinese sia entrato in collisione con un altro fenomeno emerso dopo l’11 Settembre, ovvero la crescente diffidenza verso il mondo musulmano erroneamente equiparato al terrorismo. Israele tuttora viene percepito da molti come l’ultimo baluardo dei “valori occidentali” in una regione del mondo dilaniata da conflitti religiosi. Dall’altro lato, un’ampia parte dell’opinione pubblica ha iniziato a sostenere tesi anti-semite basate sullo stereotipo del “finanziare ebreo speculatore”, in particolar modo dopo lo scoppio della Crisi del 2008. Un’immagine questa, altrettanto vergognosamente propagandata da partiti politici che per anni hanno viaggiato in doppia cifra sui sondaggi nazionali di paesi come Francia, Italia e Germania.
Infine, ritengo che la gente sia “appassionata” dai confronti in cui si può chiaramente identificare “un buono” ed “un cattivo”, due ruoli facili da sostenere od osteggiare. Non so se questo sia dovuto alla dilagante cultura cinematografica hollywoodiana (si scherza) o a qualche reminiscenza infantile, ma sono fortemente convinto che la “diversità” nell’aspetto, negli usi e costumi e nella storia delle due comunità contribuisca a creare due immaginari ben diversi in cui sia possibile riconoscersi in base al proprio background personale. Potremmo dire che per lo stesso motivo nel dibattito mainstream (occidentale) poco spazio viene riservato a conflitti territoriali combattuti tra gruppi etnici simili, si pensi al conflitto indo-pakistano nella regione del Kashmir.
Ad ogni modo, credo che la questione posta in apertura non sia una semplice domanda retorica per giovani studiosi del Medio Oriente o semplici appassionati. La piena comprensione di un fenomeno, a mio giudizio, è il primo step necessario per abbozzarne una soluzione. Un atteggiamento, questo, che certamente è mancato anche nelle più alte sfere del policy-making mondiale. Gli Stati Uniti durante la Presidenza Trump hanno infatti abbracciato una politica estera in Medio Oriente a dir poco manichea, dividendo chiaramente i paesi della regione tra “buoni” e “cattivi”. Non sorprende dunque la reticenza dimostrata dai Palestinesi nei confronti dell’ “accordo del secolo” per la pace nella regione presentato da Jared Kushner. Le conseguenze di una politica eccessivamente polarizzata sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. E non solo in Medio Oriente. Da Gerusalemme a New York, da Nuova Delhi a Roma: la demonizzazione del nemico rischia di essere il primo vero ostacolo per raggiungere una pace sociale profonda e duratura.
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[*] Ciò chiaramente non implica che tutti i video in questione siano falsi. I nazionalisti inferociti esistono sia tra le fila dei palestinesi che degli israeliani, ma sono sicuramente una parte minoritaria rispetto alla rappresentazione social.
[**] Questo è il motivo per cui ho smesso di tenere in considerazione qualsiasi video per valutare il conflitto israelo-palestinese.