"L'altra guerra fredda": rivalità e scontri dimenticati nel mondo arabo (1952-1979)
"L'Arab Cold War" di Malcolm Kerr 55 anni dopo.
Ricordo chiaramente durante il mio ultimo anno universitario un’affermazione del mio professore di Relazioni Internazionali che, per spiegarci le teorie di politica estera della Guerra Fredda, ci disse:
Non c’è nulla di più facile d’essere uno storico e studiare la politica estera durante il Secondo Dopoguerra. Da una parte gli Stati Uniti e dall’altra l’Unione Sovietica; e partendo da essi i vari alleati dispersi nei vari angoli del mondo. Una politica estera di semplice bilanciamento e potenza.
In effetti, seppur provocatoriamente, quella espressione coglieva un punto centrale: un mondo informalmente diviso in due blocchi era molto più facile da comprendere e conseguentemente prevedere rispetto alla combinazione politica, economica e sociale di altre fasi storiche (compresa quella in cui viviamo). I più potrebbero obiettare che questa sia una una eccessiva semplificazione ed in parte è vero. A rompere questo schema duale, per esempio, vi è stato il cosiddetto “Movimento dei non allineati”, altresì noto come “Terzomondismo”, riunitosi in maniera iconica nella Conferenza di Bandung a metà degli anni ‘50.
La strada tracciata da questi paesi, riunitisi sotto il comune denominatore del non riconoscimento del “paradigma comunismo vs capitalismo” ebbe certamente una grande eco mediatico, soprattutto in molte zone dell’Africa o del Sud-Est Asiatico. Al tempo stesso, e lo dico ora a scanso di equivoci, ritengo che il Terzomondismo abbia avuto un’incidenza molto limitata in termini di impatto materiale sui processi politici della Guerra Fredda. E questo non perché io nutra una particolare avversione per i paesi in via di sviluppo, bensì perché ad una disamina effettiva dei dati e delle tendenze, il peso politico effettivo esercitato durante gli anni ‘50 e ‘60 da Cina, India, Egitto, Indonesia (e tutti gli altri paesi) era molto limitato sia in termini economici e sia in termini militari. E sono questi due elementi, si sa, i primi a determinare gli esiti dei grandi conflitti.
Ciò non implica che all’interno del Medio Oriente, dell’Africa o dell’Asia sia avvenuti eventi trascurabili. Anzi, la storia politica di queste regioni è stata fortemente influenzata da questi eventi, sebbene molto spesso dimenticati negli studi storici più generalisti. In tal senso, il caso del mondo arabo è assolutamente degno di nota, ed oggi andremo a sviscerarlo per cercare di capire come i conflitti e i momenti di rottura avvenuti durante questi decenni abbiano contribuito alla costruzione del Medio Oriente moderno.
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1. L’Arab Cold War: cenni storici.
Quando parliamo di “Arab Cold War” facciamo riferimento ad un’espressione coniata nel 1965 da Malcolm Kerr nel suo omonimo libro. Questo concetto fa riferimento al conflitto consumatosi tra il 1952, l’anno della Rivoluzione Egiziana, e il 1979, l’anno della Rivoluzione Iraniana. Sebbene questo processo sia inquadrabile all’interno della più ampia cornice della Guerra Fredda, esso presenta delle peculiarità non indifferenti. Prima fra tutte è proprio la componente “araba” del conflitto, che ha portato al confronto alcuni paesi arabi cosiddetti “conservatori” (le monarchie del Golfo) e alcuni paesi arabi retti da regimi “radicali” (Egitto, Siria, ecc).
Prima di addentrarci in questo conflitto è necessario fare qualche passo indietro per andare all’origine di questa conflittualità. Gli storici hanno spesso indicato con “fase nazionalista” l’esperienza storica vissuta dal Medio Oriente a partire dal crollo dell’Impero Ottomano fino alla disfatta militare della Guerra dei Sei Giorni (1967). Durante questo periodo i paesi arabi hanno in un primo momento (soprattutto nel periodo 1919-1948) adottato sistemi di governo fortemente ispirati a quelli occidentali (non casualmente il lessico politico arabo di questo periodo si è arricchito di parole come liberalismo, secolarismo, ecc). L’Occidente era dunque percepito come un modello da imitare per giungere alla prosperità socio-economica. Questo paradigma diede tiepidamente inizio ad una trasformazione politica dei paesi della regione soprattutto da un punto di vista degli assetti istituzionali, ma un evento catastrofico (agli occhi delle leadership arabe) contribuì a porre fine a questa fase. Stiamo ovviamente parlando della Nakba, “la catastrofe”, rappresentata dalla nascita dello Stato di Israele e l’umiliazione subita durante la Guerra del 1948.
Questo evento, con tutte le sue implicazioni identitarie, militari e politiche, diede avvio ad un secondo momento della fase nazionalista che ha visto l’emergere di governi radicali e nazionalisti (soprattutto tra il 1952 e il 1967) che si ponevano in profonda rottura con le precedenti esperienze politiche filo-occidentali. In tal senso, il caso più emblematico è rappresentato dall’emergere dell’ideologia Nasseriana in Egitto a seguito del colpo di Stato del 1952 ad opera delle forze armate. I cardini del pensiero di Nasser possono essere così riassunti:
La rivoluzione come strumento per il cambiamento politico.
La lotta anticoloniale (e il conseguente passaggio dall’imitazione dell’Occidente al suo rifiuto).
L’interventismo statale in ampi settori dell’economia come cardine del modello di sviluppo.
Il Panarabismo come ideologia dominante [*].
La “nazionalizzazione della religione”, ovvero l’estendersi del controllo statale sulla religione.
L’altra ideologia radicale emersa in questa fase è il cosiddetto Baatismo in Siria e in Iraq, influenzato dall’opera dell’intellettuale Michel Aflaq. Secondo i sostenitori di tale ideologia il profeta Muhammad viene visto prima di tutto come una figura politica piuttosto che religiosa e conseguentemente l’intera Umma [**] viene interpretata come una comunità nazionale, anziché la comunità di tutti i credenti musulmani. Nonostante questi capisaldi un enorme paradosso è emerso in tutti i paesi in cui il Baatismo ha potuto esprimersi come esperienza storica reale. Sia in Siria che in Iraq, infatti, queste ideologie hanno visto un graduale passaggio dal nazionalismo (formalmente professato) al settarismo. Secondo molti esperti, la causa di questo fenomeno va ricercata nel fatto che le élite di questi paesi non siano state in grado di costruire una solida base sociale a sostegno del Baatismo, dovendo quindi ritornare alla solidarietà tribale per poter reggere il loro sistema politico e il loro network di potere.
Egitto e Siria, dunque, rappresentano maggiormente le istanze dei regimi arabi radicali affacciatisi sulla scena politica del Medio Oriente all’alba degli anni ‘50. Non casualmente questi due paesi hanno provato la via dell’unificazione politica in nome del Panarabismo con l’esperimento (fallimentare) della Repubblica Araba Unita durata appena tre anni (1958-1961). Ad ogni modo, l’emergere di queste ideologie ha avuto un impatto dirompente sulla regione, con grandi mobilitazioni di piazza, un forte estremismo ideologico e il rafforzamento del cosiddetto Movimento dei Non-Allineati sul piano internazionale. Per questo motivo, le dinamiche della Guerra Fredda e del conflitto all’interno del mondo arabo sono strettamente legate.
2. Linee di scontro tra conservatori e radicali
La ricerca di Malcolm Kerr ci riconduce fondamentalmente a tre linee di frattura tra i paesi conservatori del golfo e i paesi radical del Mediterraneo orientale.
La prima, riguarda il conflitto tra Repubblica e Monarchia. L’Egitto di Nasser, infatti, durante gli anni ‘50 e ‘60 si fece formalmente promotore di un “Nuovo Repubblicanesimo” in Medio Oriente. Sebbene la realtà ci dica che l’Egitto durante la sua fase Nasseriana abbia vissuto in realtà una fase di regressione democratica molto marcata (soprattutto se paragonata con il successivo periodo di Sadat), Nasser accusò spesso le monarchie del Golfo di non rappresentare adeguatamente il volere del popolo, essendo perlopiù rette da un sistema tribale.
La seconda linea di frattura riguarda il confronto tra il Panarabismo e il Panislamismo. Come visto precedentemente, l’ideologia alla base del pensiero di Nasser è stata a lungo influenzata dall’idea di una riunificazione di tutti i popoli arabi, con l’Egitto posto al centro di questo progetto con il ruolo di guida politica. Questa visione è stata però osteggiata dall’Arabia Saudita che, da parte sua, è stata a lungo promotrice del cosiddetto Panislamismo, un concetto più ampio e che abbraccia virtualmente la comunità islamica globale; quindi l’Umma nel suo complesso. Per comprendere il perché di questa posizione basti ricordare che l’Arabia Saudita riveste ancora oggi un ruolo chiave per la religione islamica in quanto custode dei luoghi sacri dell’Islam a Mecca e a Medina.
Infine vi è lo scontro tra l’Islam progressista promosso da Nasser e l’Islam conservatore praticato in Arabia Saudita (in questo articolo di MedFiles vi ho già spiegato il Wahhabismo che ha avuto un ampio ruolo nella storia del paese grazie alla sua alleanza con la famiglia reale dei Saud). In questo caso la sfida era mossa soprattutto nell’ambito dell’interpretazione dell’Islam come religione e, conseguentemente, come sistema di valori, pratiche ed usi.
È evidente però, che queste tre linee di frattura non riassumano nella sua interezza l’Arab Cold War come fenomeno storico. Perché se da un lato è vero che questi paesi hanno perseguito una politica autonoma di aperta rivalità, è al tempo stesso innegabile che l’influenza del contesto internazionale della Guerra Fredda abbia avuto un impatto enorme sulle sue dinamiche. Non è un caso dunque che le Monarchie del Golfo fossero supportate dagli Stati Uniti, mentre l’Egitto, la Siria e gli altri paesi radicali fossero supportati dall’Unione Sovietica.
3. L’altra Guerra Fredda: distensione e riallineamento
È interessante notare come questo conflitto, seguendo le orme del suo omologo più ampio su scala globale, si sia di fatto concluso senza scontri armati. Le cause del del suo declino vanno pertanto ricercate in una serie di fattori endogeni ed esogeni che vanno al di là del conflitto militare intra-arabo. L’impatto più dirompente su questo precario equilibrio tra radicali è conservatori è stato dato infatti, per ironia della sorte, proprio da un’altra vittoria di Israele, quella avvenuta a seguito della Guerra dei Sei Giorni (1967) che ha gettato scompiglio in tutto il mondo musulmano. La riconciliazione, a questo punto, divenne una necessità oltre che politica anche esistenziale per garantire la sicurezza dei confini e la riconquista dei territori perduti.
Un altro degli effetti della Guerra dei Sei Giorni, fu la pesante influenza esercitata sul cambio di leadership politica all’interno dell’Egitto, favorendo il declino di Nasser e l’ascesa di Sadat, il quale negli anni successivi avrebbe apportato una rivoluzione non indifferente nella politica egiziana: liberalizzazioni economiche, maggior spazio alle libertà civili e, soprattutto, l’avvicinamento a Stati Uniti e Israele.
In secondo luogo, l’altro elemento che ha fortemente influenzato la fine dell’Arab Cold War è stata la situazione di insostenibilità politica ed economica di molti regimi verso la metà degli anni ‘60. L’Egitto, in particolare, era intrappolato in una spirale di stagnazione economica, corruzione dilagante ed indebitamento che necessitavano di una “cura shock” in tempi brevi per evitare il collasso. Era però evidente che fintanto che l’Egitto avesse continuato ad orbitare in ottica sovietica sarebbe stato impossibile poter accedere ai prestiti del FMI o della Banca Mondiale. Inoltre la stessa Unione Sovietica verso la fine degli anni ‘60 sembrava non essere più in grado di mantenere il suo ruolo di garante e protettore nei confronti dell’Egitto.
4. Qualche considerazione finale
Come già detto in apertura, l’Arab Cold War è un momento storico che spesso passa in secondo piano all’interno dei curricula dei principali percorsi di studi. Ciò però non implica che i suoi effetti siano trascurabili all’interno del Medio Oriente. Innanzitutto, la fine delle conflittualità intra-arabe dopo il 1967 e soprattutto la Rivoluzione Iraniana del 1979 hanno spinto il sistema regionale verso l’attuale situazione politica: una divisione abbastanza netta tra Sunniti e Shiiti. È innegabile infatti che la Rivoluzione Islamica del ‘79 sia stata uno dei momenti di maggior rottura del sistema delle relazioni internazionali del Medio Oriente. Per questo motivo per molti paesi arabi sarebbe stato impossibile, data l’aggressività iraniana, mantenere una politica di massima pressione anche sul fronte intra-arabo.
In secondo luogo, la fine dell’Arab Cold War e più in generale l’inizio degli anni ‘70 coincide anche con un momento di ritrovata apertura politica con Israele consumatasi a partire dagli Accordi di Camp David firmati da Sadat nel 1978. Sebbene con non pochi passi indietro durante gli anni ‘80, ‘90 e 2000, la tendenza storica degli ultimi decenni è stata quella di un graduale riavvicinamento tra il mondo arabo e lo Stato di Israele, in parte coronato con la firma degli Accordi di Abramo dello scorso anno. La politica e l’ideologia, a fronte di un mondo in continuo cambiamento, ha fatto spazio alla cooperazione economica e militare, anche se in questo caso la minaccia percepita dall’Iran ha certamente influenzato il riavvicinamento arabo-israeliano.
[*] Per Panarabismo si intende un’ideologia ed un movimento politico il cui scopo principale è la creazione di un soggetto politico in grado di riunire tutti i popoli arabi.
[**] La comunità dei credenti musulmani.
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