Il miracolo economico di Israele
Punti di forza e strategie di un Paese costantemente in crescita
Un miracolo economico, nonostante la guerra permanente
Nel 1948 il mandato britannico sulla Palestina terminò ufficialmente permettendo la nascita dello Stato Israele. Da quel momento, la storia di questo Paese è stata caratterizzata sia da numerosi conflitti con i vicini arabi, tra tutti l'Egitto guidato da Nasser, e sia da un'incredibile crescita economica, soprattutto a partire dalla fine degli anni '90.
Anche in anni recenti questo Paese è stato coinvolto in una serie di conflitti, seppur caratterizzati da una nuova forma. Si pensi, per esempio, alla radicalizzazione del conflitto con Hezbollah nel Libano meridionale e con Hamas sulla striscia di Gaza. Inoltre, lo scoppio della guerra civile in Siria ha aumentato drasticamente il livello di tensione di tutta l’area del Mediterraneo Orientale, portando con sé numerosi rischi legati alla diffusione del terrorismo islamico nella regione.
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Israele, ovvero la start-up nation
Ad ogni modo, per andare alle radici del miracolo economico di Israele spesso si cita un libro uscito ormai da più di dieci anni, ovvero Start-up Nation: The Story of Israel's Economic Miracle scritto da due giornalisti, Dan Senor e Saul Singer, ed edito da Hachette.
In questo libro gli autori, ripercorrendo la storia economica del Paese, hanno messo in evidenza le caratteristiche chiave di questa crescita senza precedenti. In particolare vengono sottolineati due elementi fondamentali: l'impatto della cultura dell'Israeli Defense Force (le forze di difesa Israeliane) ampiamente diffusa tra tutti i giovani a causa della leva obbligatoria e la composizione della popolazione israeliana, influenzata fortemente dai flussi migratori che hanno ripopolato il Paese a partire dal 1948.
Due fattori, in particolare, caratterizzano il miracolo economico di Israele: la cultura dell’Israeli Defense Force e il fenomeno migratorio
Se, infatti, l’IDF ha stimolato nei giovani un forte senso di responsabilità all'interno di un ambiente in cui intelligenza e creatività vengono premiate, la popolazione immigrata sembra essere più incline ai rischi e al duro lavoro. Questi due elementi sembrano difficilmente replicabili in altri Stati contemporanei—soprattutto quelli europei—poiché sono fortemente legati all’eccezionalità storica dello Stato di Israele e alle sue peculiarità socio-culturali.
“Beyond the military and immigration”: il ruolo delle istituzioni
Sarebbe però impreciso limitare l’analisi solo a questi due fattori. Le ricerche più autorevoli riconoscono infatti il ruolo fondamentale rivestito dalle istituzioni sociali ed economiche nella crescita o, al contrario, nella stagnazione economica. Innanzitutto è opportuno ricordare che Israele è una democrazia stabile e consolidata, come evidenziato da tutti gli indicatori chiave. L’ampio ruolo delle forze armate nella vita del Paese è infatti giustificato dal continuo stato di guerra in cui il Paese è coinvolto, più che da derive autoritarie simili a quelle vissute, per esempio, dall’America Latina nella seconda metà del Novecento. La separazione tra l’esecutivo e l’esercito è infatti netta, con il primo a subordinare chiaramente il secondo. È bene specificarlo poiché lo stesso non si può affermare per alcuni Paesi chiave della regione come l’Egitto (qui un mio approfondimento)
Per quanto riguarda le istituzioni economiche, Israele è un Paese fortemente orientato verso l’economia di mercato, concedendo ampio spazio all’iniziativa privata e agli investimenti esteri diretti. L’economia di Israele viene inoltre definita knowledge-based per via dell'ampio ruolo che la conoscenza e il sapere, soprattutto quello tecnico-scientifico, hanno avuto nella crescita in settori chiave come l’information technology (IT), l’internet of things (IoT), l’intelligenza artificiale (AI) e la manifattura industriale.
Nonostante il fatto che le caratteristiche appena descritte potrebbero far pensare ad un modello simil-statunitense, Israele possiede anche un welfare sviluppato al pari di altri Stati europei (e in molti casi addirittura superiore).
Si può parlare di un “modello Israele”? Un pò di dati
Un recente articolo apparso su Bloomberg ha saputo riassumere in maniera intelligente alcuni dei punti precedentemente toccati. Infatti:
Israele è riuscita a [crescere economicamente] incentivando il commercio, integrandosi nell'economia globale, liberalizzando la sua economia e investendo fortemente nel settore tecnologico e nelle startup, spesso con il supporto governativo
Questa strategia trova evidenza empirica nei maggiori indicatori economici:
Gli investimenti esteri diretti in entrata si sono mantenuti in costante crescita negli ultimi anni, raggiungendo anche picchi di 20$ miliardi l’anno. Oltre a portare ricchezza materiale, questi investimenti sono riusciti ad attrarre talenti e know-how impattando positivamente su tutto il sistema economico tramite il cosiddetto “effetto spillover”.
Gli indicatori demografici sono altrettanto positivi. La speranza di vita nel Paese è in costante crescita e, ad oggi, è tra le più alte al mondo. Il numero complessivo di abitanti si attesta invece attorno agli 8 milioni. Infine, in controtendenza rispetto all’invecchiamento della popolazione registrato in tutte le maggiori economie occidentali, l’età media degli israeliani è molto bassa, circa 30.5 anni.
Israele si pone infine tra le economie che investono maggiormente in ricerca e sviluppo (in percentuale rispetto al PIL), superando con il suo 4.2% Paesi come il Giappone (3.4%) e Stati Uniti (2.7%).
Ma come è stato possibile raggiungere questi risultati in poco più di settant’anni? Sicuramente risulta essere centrale la transizione da un sistema simil-socialista ad uno basato sull’economia di mercato. Sin dalla sua nascita, il Paese ha infatti adottato come nucleo della produzione economica i Kibbutz, ovvero delle comunità agricole rurali in cui il lavoro (che contribuiva alla ricchezza sociale e non individuale) veniva retribuito con derrate alimentari e altri beni di consumo prodotti all’interno del Kibbutz stesso. Nonostante questo modello possa essere considerato una delle esperienze socialiste di maggior successo (con tassi di crescita talvolta importanti) esso è entrato in crisi negli anni ‘80.
Gli storici dell’economia sono soliti far coincidere con la crisi economica che ha raggiunto il suo apice nel biennio ‘84-’85 un punto di svolta cruciale per Israele. Le prime riforme di mercato, introdotte appunto come soluzione a questa crisi verso la metà degli anni ‘80, sono state uno dei pilastri che hanno orientato il Paese verso l’attuale direzione economico-politica, sebbene il loro impatto abbia iniziato a manifestarsi solo dopo più un decennio.
In questo quadro, i recenti accordi di Abramo, siglati tra Israele e gli Emirati Arabi, seguiti dalla normalizzazione dei rapporti con Bahrain e Sudan hanno posto le basi per una maggiore stabilità nell’area e per un’integrazione regionale più profonda. Israele e gli EAU potranno infatti instaurare nuovi rapporti di collaborazione sia sotto il profilo economico e sia sotto quello della sicurezza in una regione che storicamente è stata falcidiata da conflitti e distruzione. Sperando che questo sia ovviamente solo il primo passo di una riappacificazione più ampia in Medio Oriente—coinvolgendo in questo processo anche l’Arabia Saudita e altri Paesi arabi—questi segnali lasciano ben sperare, almeno per il futuro più prossimo.
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